La ceramica calatina attraverso i secoli
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Album fotografico di Caltagirone chrisound
di Antonino Ragona Foto di:
Umberto & figli
Dr. Giacomo Territo
M. e G. Marcinnó
chrisound studio

I colonizzatori greci in Sicilia produssero ceramiche in collaborazione con i Siculi ellenizzati. Questo chiaramente dimostrò il casuale rinvenimento dei resti di una fornace siceliota del V e IV secolo a.C., avvenuto nel giugno del 1948 entro la selva del monastero benedettino di S. Gregorio in Caltagirone, in occasione di profondi sterramenti per l'ampliamento dell'edificio della locale Scuola di Ceramica. Ivi alla distanza di alcune decine di metri dall'abside della vicina chiesa di S. Nicola di Bari, verso oriente, alla profondità di circa tre metri dal livello del declivio, emersero, attorno al cinerario di una modesta fornace schiacciata dagli smottamenti di terra, innumerevoli e significativi rottami appartenenti alle piú svariate sagome di vasellame fittile.
Cocci di vasi globulari del quarto periodo siculo con decorazione lineare, frammenti di ceramiche greche a vernice nera e a figure rosse fornirono chiara documentazione di una fioritura della ceramica al tempo della colonizzazione greca nel luogo ove sorge Caltagirone. Gran parte di questo materiale ceramico frammentario fu da noi raccolto ed oggi vedesi esposto in alcune vetrine del locale Museo della Ceramica. Esso ci dice chiaramente che la maggior parte degli oggetti ceramici trovati in precedenza attorno all'abitato caltagironese aveva provenienza locale.
Alla luce di tali testimonianze, non è dubbio che sia da ritenere di produzione locale anche il bel cratere a figure rosse scoperto nel 1914 nei pressi di una fornace a S. Luigi, località ricadente ora entro la stessa città. Il pregevole vaso, oggi conservato nel predetto Museo della Ceramica, riproduce nella faccia principale un ceramista all'impiedi che sulla ruota girata da un garzone plasma un grande "phitos", sotto la protezione di Atena. Il singolare cimelio documenta e magnifica un'arte millenaria praticata sul luogo ove ora sorge Caltagirone. A maggiore conferma di ciò, sono venuti alla luce in scavi condotti alcuni anni addietro dalla Soprintendenza alle Antichità della Sicilia orientale nella vicina contrada S. Mauro, le fornaci per la cottura di questi grandi "phitoi". L'uso di questo tipo di vasi riscontrato anche a scopo funerario, amplia il panorama della produzione e giustifica la mole delle fornaci ivi rinvenute. Esse si presentavano a pianta ellittica, con intuibile copertura emisferica, che doveva essere fatta, di volta in volta, di argilla impastata con paglia, ricoprente i grossi vasi da cuocere colmati ed interstiziati da legna grossa. Detti vasi erano sistemati su un piano concavo di terra battuta recinti da muretto in pietra intonacata d'argilla con due o piú bocche da fuoco in corrispondenza dei cinerari formati dagli stessi cunicoli ricavati fra i vasi addossati. Quando l'accensione attraverso le predette bocche da fuoco era avviata, queste venivano chiuse. Si aveva così una cottura lenta che durava fino alla consumazione della legna frapposta negli interstizi dei vasi sotto la coperta di terra su cui erano praticati dei piccoli ma numerosi sfiatatoi per alimentare d'ossigeno internamente il fuoco acceso. Queste fornaci per la loro elementare struttura, assai vicine alle fosse per fare il carbone e alle "calcare" per la cottura del gesso e della calce, hanno spiegato alla distanza di millenni il segreto del procedimento di cottura dei grandi vasi, rimasto per l'addietro sempre un mistero.
Ma invero, come si può capire da quanto detto, non è un mistero se la lettura dei reperti va fatta adeguatamente. Non è neppure un mistero la vernice nera dei vasi greci, a portata di ogni ceramista del tempo, sol che si fosse fornito dell'apposito colorante fatto di argilla naturale pregna di ossido di ferro e di un fondente che generalmente era il "natron". Tutto poi stava nel procedimento di cottura che costituiva il vero magistero dell'arte. Lo stesso dicasi della vernice corallina dei vasi aretini.
Nei dati archeologia anzidetti, trova così conferma quanto incidentalmente scrisse nel 1654 il gesuita Gianpaolo Chiarandà nella sua storia della città di Piazza Armerina.
Lo scrittore, infatti, già ammetteva che l'arte della ceramica fosse stata a Caltagirone anteriore alla venuta degli arabi e che anzi alla città essi avrebbero dato nome "Caltagirone", pigliandolo dall'arte ceramica ivi esercitata "da molti vasai".
Il Chiarandà si riferiva particolarmente ai termini derivanti dall'arabo, "Calata" e "giarrone" per cui Caltagirone equivarrebbe a "Collina dei vasi".
Non è quindi nuova nè infondata la comune affermazione che i ceramisti arabi, in seguito alla conquista musulmana dell'isola, si siano tosto stabiliti in questo centro ceramistico ed abbiano dato nuovo impulso all'arte ceramica, facendovi brillare i procedimenti tecnici da loro portati dall'Oriente. Ci riferiamo in particolare alla invetriatura piombifera e stannifera che soppianta in Occidente ogni residua tecnica ereditata dal mondo classico.
Le ragioni per cui la ceramica calatina ebbe nel Medioevo notevole impulso sono da ricercare non solo nella buona qualità delle argille, di cui abbonda la città e su cui essa stessa è assisa, ma anche nei vicini ed immensi boschi che da una parte alimentavano e favorivano l'enorme sviluppo dell'industria del miele, con la conseguente richiesta di recipienti per la conservazione, e dall'altra fornivano inesauribilmente la legna che gratuitamente potevano prendere, ed in abbondanza, per la cottura dei loro forni, i numerosi ceramisti del luogo. Le quartare caltagironesi per contenere il miele erano note ovunque, al pari dell'industria del miele di cui parla nel secolo XII Idrisi, il geografo arabo alla corte di Ruggiero normanno. Esse sono notate anche negli inventari di beni lasciati in eredità, come quello del 1596 di D. Matteo Calascibetta, Barone del Cotumino, abitante nella città di Piazza. Che nel Medioevo in Caltagirone il numero degli artigiani dediti all'industria del vasellame invetriato fosse rilevante è confermato dalla notizia, fornitaci dal P. Francesco Aprile, di fornaci di cannatari sepolte da una frana nel 1346 sul fianco occidentale del castello, e dall'esistenza ai primi del '500 di un intero rione di maiolicari - distinto da quello dei comuni vasai - a fianco della Chiesa di S. Giuliano e precisamente dove nel 1576 sorse la Chiesa di S. Agata. Il più antico maiolicaro di cui si ha notizia, è maestro Federico Judica che nel 1456 venne chiamato a Noto per insegnare l'arte della smaltatura del vasellame. La notizia è stata ricavata dai rogiti del notaio Giuseppe Musco di Noto dalla studiosa Lúcia Arcifa. Nei decorsi anni, come abbiamo potuto direttamente constatare, sono state rinvenute due fornaci di ceramisti, una entro la stessa chiesa di S. Agata e l'altra avanti la chiesa di S. Giacomo, databile al sec. XVI la prima e la seconda al secolo precedente. La maestranza, abbandonata la lontana cappella della Madonna del Salterio o del Rosario della Chiesa Madre, si raccolse nell'anzidetta chiesa di S. Agata, prima che passasse nel tardo secolo XVII nella confraternità dell'Immacolata nel vicino convento di S. Francesco d'Assisi dei PP. Conventuali. Si sa altresì che questa maestranza, fiera dell'arte che esercitava, offriva al protettore della città, S. Giacomo, dei paliotti d'altare fregiati delle proprie armi o stemma che era il vasaio al tornio.
Ma sebbene molti siano i nomi dei ceramisti del '500 che noi rileviamo dai documenti scritti e principalmente dai Riveli, che ci indicano oltre cento officine di maiolicari attive in detto luogo, a causa dell'immane cataclisma del 1693, che sconvolse tutte le città della Sicilia orientale, pochissime sono le opere superstiti e soltanto un frammento di un bacile di acquasantiera, conservato nel Museo civico di Piazza Armerina, ci dà il nome dell'autore attraverso la seguente scritta che in esso si legge: "lafóti lafichim. joanelu di maulichi", cioè "la fonte la fece maestro Jovannello Maurici". Questi apparteneva ad una grande famiglia di maiolicari che verso la fine del '500 si estese nella lontana Burgio nell'Agrigentino, propagando l'arte della maiolica attraverso quel Matteo Maurici, nipote di Joannello, seguito da un nutrito gruppo di maiolicari caltagironesi, fra cui Pietro e Francesco Gangarella, Giacomo Sperlinga, Antonio Merlo, Giuseppe Savia, Bartolomeo Daidone ed altri.
Del '600 si può dire altrettanto. Infatti, oltre ai siginificativi frammenti del pavimento datato 1621, opera di maestro Francesco Ragusa, e a quelli dell'altro impiantito della seconda metà dello stesso secolo, di maestro Luciano Scarfia, rispettivamente appartenenti alle Chiese di S. Maria di Gesù e dei Cappuccini (ed oggi in parte conservati al Museo Regionale della Ceramica), il resto fu travolto dal terremoto dell'1 1 gennaio 1693, che cancellava nella parte orientale dell'isola, quasi ogni traccia dell'attività plurisecolare delle officine ceramistiche caltagironesi.
Ma chiusosi il secolo XVII fra gli sconvolgimento tellurici ed i lutti che non meno delle altre città afflissero Caltagirone, con l'avvento del nuovo secolo si ebbero palesi segni di ripresa anche per l'arte ceramica. Essa sotto nuovi indirizzi artistici rifiori. Vennero fuori nel '700 gli ornati a motivi floreali a grandi volute e a disegni continuativi. Escono in questo secolo dalle fornaci caltagironesi vasi con ornati a rilievo e dipinti, acquasantiere, lavabi, paliotti d'altare, statuette, decorazioni architettoniche di prospetti di chiese, di campanili e di case private, pavimenti con ornati a grandi disegni. Sono i Polizzi, i Dragotta, i Branciforti, i Bertolone, i Blandini, i Lo Nobile, i Ventimiglia, i Campoccia, i Di Bartolo e tanti altri maestri che fanno splendere con la loro superba arte plastica e pittorica in ogni angolo di casa e di chiesa di Sicilia la maiolica caltagironese. P- Angelo o Michelangelo Mirasole, nativo di Aragona nell'Agrigentino che, imparentato coi Lo Nobile, fra i piú valenti ceramisti caltagironesi, realizza statue, mezzi busti e rivestimenti in maiolica come quello del Teatrino, progettato nel tardo Settecento dall'architetto Natale Bonaiuto, ove collaborò pure il maiolicaro Ignazio Campoccia, autore dei piú vasti pavimenti settecenteschi caltagironesi a grande disegno. P- Giacomo Bongiovanni, la cui nonna era sorella di Antonino Bertolone, abile maiolicaro e plasticatore, che sulla fine del secolo ed i primi deceni del nuovo, ispirandosi alle opere del trapanese Giovanni Matera, anima le sue figurine di terraccota di pulsante vita paesana, seguito nell'arte dal valente nipote Giuseppe Vaccaro.
Sulla scia di questi maestri altri si incamminarono dando all'arte delle figurine notevole impulso artistico e grande notorietà anche lontano.
Ci limitiamo a citare fra questi Giacomo Azzolina e soprattutto Francesco Bonanno che, oltre che all'arte del Bongiovanni, si ispirò alle incisioni di Bartolomeo Pinelli, specie in quelle scene che ritraggono soggetti di briganti. Attivo nello stesso periodo è il ceramista Giacomo Arcidiacono cui si deve il rivestimento in maiolica del prospetto della chiesa di S. Pietro disegnato dall'architetto Gaetano Auricchiella nel 1856.
Ma ben presto segue a tanto fervore di qualificata attività artistica la parabola discendente. L'Ottocento con l'uso del cemento nei pavimenti, col dilagare di terraglie continentali e stoviglie napoletane sul mercato isolano, frutto di produzione seriale dovuta al progresso della tecnica e delle macchine, dà un fatale colpo alla ceramica caltagironese che continua a dibattersi fra gli antichi procedimenti tradizionali di vetuste botteghe prettamente artigianali.
Una breve fioritura ebbe a Caltagirone fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento la terracotta decorativa usata nell'architettura per merito del plasticatore e maiolicaro Giuseppe Di Bartolo e dei modellatori Enrico Vella e Gioacchino Alì. Ma questa venne meno con la morte degli stessi maestri, che seppero darle quel periodo di floridezza e diffusione, favorita anche dalla mole di opere richieste dal Cimitero monumentale e dal campanile di S. Giacomo, rispettivamente progettati dai locali architetti G.B. Nicastro e Gaetano Coniglio.
Furono questi maestri gli ultimi bagliori della ceramica calatina.
Dopo la loro scomparsa Caltagirone avrebbe cessato di essere annoverata fra le città produttrici di maioliche e terrecotte, se per merito di Don Luigi Sturzo non fosse sorta una Scuola di Ceramica che si innestasse alla vecchia tradizione ceramistica e la continuasse aggiornandola ai tempi.
Don Luigi Sturzo, raccolti gli ultimi rappresentanti di quella morente tradizione, fra cui il maiolicaro Gesualdo Di Bartolo, il figurinaio Giacomo Vaccaro, ed il plasticatore Giuseppe Nicastro, allievo di Enrico Vella, aprì nel 1918, lottando contro remore ed incomprensioni, la Scuola di Ceramica, oggi divenuta Istituto d'Arte per la ceramica. Essa ha dato esempi di vitalità in realizzazioni di vasta portata, come il rivestimento maiolicato delle alzate dei 142 gradini della monumentale Scala di S. Maria del Monte in Caltagirone, che, su disegni da noi ideati e progettati, negli anni 1954-1955 ha visto impegnati nell'esecuzione valenti ex allievi dell'Istituto come Gesualdo Aqueci, Nicolò Porcelli e Francesco ludice.
Filiazione diretta dell'Istituto d'Arte può, a ragione , considerarsi il locale Museo della Ceramica, che con una eccezionale documentazione di cimeli ceramici di ogni tempo, da noi raccolti, presenta ai visitatori un quadro completo dello svolgimento plurisecolare non solo della ceramica caltagironese, ma dell'intera isola.
Ormai lo spirito della tradizione per merito della Scuola di Ceramica, per oltre vent'anni, da noi diretta, è ritornato a pulsare nei petti degli artigiani che numerosi sono ricomparsi operanti in ogni angolo della città. La Scuola ha così esaurito la propria missione che è passata ora esclusivamente al Museo. Ad esso, come ad una limpida fonte, potranno attingere inesauribili linfe vitali gli artigiani locali e.forestieri che, pur sotto l'incalzante stimolo della richiesta, vogliono richiamarsi alle glorie del passato e trovare insieme novelle ispirazioni.