Quando
nel 1470, o qualche anno prima, Antonello da Messina veniva in Caltagirone
e firmava presso il locale notaio Matteo Pistone il contratto per la
Cona intagliata e dipinta, la piú significativa e costosa che il maestro
abbia fatto in tutta la sua attività di artista, la città era arroccata
tutta sulla collina piú alta ed era ancora recinta dalle vecchie mura
medievali. Queste lasciavano quasi al centro il turrito castello e la
vetusta chiesa madre e a sud-ovest, a mezza costa, la porta principale
di accesso all'abitato, detta del Conte, dallo storico ingresso del
Conte Ruggero normanno dell'anno 1090. Fuori della cinta muraria rimanevano
le antiche chiese di S. Giorgio, di S. Giacomo e di S. Giuliano, pur
esse antiche e ricche di storia per essere state fondate, la prima dai
Genovesi e le altre dai Normanni.
Il pittore messinese veniva a portare il primo alito artistico del Rinascimento
in una città ricchissima di feudi, scarsamente popolata e dominata da
una potente nobiltà medievale, arricchitasi amministrando i beni demaniali
cittadini.
I segni del fasto nobiliare erano manifesti soprattutto nell'anzidetta
Chiesa Madre, che quattro nobili famiglie, gli Alagona, i Moncada, i
Santapau, i Branciforti nel sec. XIV, avevano contribuito a dotare di
un altissimo campanile triangolare a loggiati in pietra bianca e nera,
dai cui merli si affacciava una imponente aquila ghermente col destro
artiglio un osso di gigante e ferente nel petto lo scudo crociato,insegna
avuta dai genovesi. All'interno della stessa chiesa poi, riccamente
decoravano il tetto ligneo pregevoli pitture raffiguranti scene dell'Antico
Testamento, intercalate da vistosi scudi nobiliari pendenti dalle travature,
testimonianti i munifici casati cui si dovevano tali opere e nel tempo
stesso le lotte di cui la città era stata teatro nel periodo chiaramontano.
In questa chiesa, sacrario di ricordi storici cittadini medievali e
moderni, i mille prodi caltagironesi avevano deposto la campana che
qual trofeo di Vittoria avevano portato dall'espugnata rocca di Judica
nel 1076; ivi avevano trovato sepoltura l'anno successivo al Vespro
le ceneri di Gualtiero di Caltagirone, martire indipendendista, ribelle
dichiarato alla politica di Pietro III d'Aragona; ivi pure trovarono
la estrema dimora le ossa di Giovanni Burgio, medico illustre, difensore
autorevolissimo dei diritti e dei privilegi della città natale e della
Sicilia tutta che, dopo essere stato vescovo di Manfredonia e di Mazara,
assurse alla dignità di arcivescovo di Palermo. Nei secoli successivi
la chiesa accoglierà le tombe dei vescovi siracusani Giacomo Umana e
Paolo Faraone, morti in corso di sacra visita in Caltagirone, rispettivamente
nel 1512 e nel 1629. In questa chiesa ora arrivavano le prime opere
testimonianti il risveglio culturale ed artistico rinascimentale della
città: la cena antonelliana, la statua marmorea della Madonna della
Purificazione, il gonfalone argenteo, tutte opere quattrocentesche.
Includiamo fra le anzidette opere pure la cona di Antonello, perchè
è piú verosimile che sia stata, se non dipinta per la chiesa Madre,
ivi trasferita da quella di S. Giacomo, poichè in questa attraverso
i documenti non vi è alcuna traccia di cona.
Ma a testimoniare in Caltagirone l'avvento dell'era rinascimentale ed
umanistica, quando la Città si scuote dal peso della vecchia nobiltà
che vi si era insediata e diventa protagonista di una rinnovata politica,
è il sorgere del nuovo palazzo di città fuori della vecchia cinta muraria,
ai piedi della collina, presso la chiesa di S. Giuliano, non lungi dal
ghetto degli ebrei, nel luogo pianeggiante detto Malfitania, a ricordo
delle antiche logge degli Amalfitani ivi una volta sorgenti.
A firmare l'atto di nascita di questo palazzo civico, e non è senza
significato, fu con gli altri giurati quel Nicolo Minafria che aveva
stipulato il contratto per la cona di Antonello da Messina. L'atto rogato
dallo stesso notaio Matteo Pistone, porta la data 1483 e segna, certamente,
l'inizio della costruzione del nuovo edificio, i cui lavori di decorazione
dovettero protrarsi a lungo se se ne parla ancora sotto il regno dell'imperatore
Carlo V. Un'incisione del 1507 ci presenta questo palazzo di città in
piena attività anche come fucina di cultura cittadina. Infatti ci viene
rappresentato assiso in cattedra, nell'aula magna, il precettore netino
Deodato Giustiniani, di cui la città dovette servirsi come lettore di
grammatica e di filosofia in pubbliche lezioni a favore della cittadinanza.
Invero la Città già nel 1481, manteneva tre studenti agli studi generali
in diverse scienze (poi 10 fino al 1570) e veniva autorizzata a stipendiare
un maestro di scuola. Allora pure venivano assegnate somme per il mantenimento
del pubblico orologio e per la festa di S. Maria di Gesù. Questa era
la festa principale della città e si celebrava anche con la corsa dei
palii e con la fiera. C'era però immanente la preoccupazione delle scorrerie
turche per cui spesso le somme destinate per le feste erano stornate
per le munizioni e le fortificazioni.
Nel rinnovato clima culturale dovuto al Rinascimento che si avverte
ovunque, la Città capisce che i vasti possedimenti feudali possono aprirle
la via per assurgere al rango delle piú rinomate città dell'isola.
Ed incomincia a far conoscere ai cittadini ed ai forestieri la forza
della ricchezza di cui dispone e che vuole che si manifesti nell'interesse
della comunità. Ella ridesta i suoi antichi fasti di gloria. Partecipa
attivamente nel 1535 alla spedizione di Tunisi condotta dall'imperatore
Carlo V contro il pirata Barbarossa che infestava il Mediterraneo e
rendeva insicure tutte le città da esso bagnate e in particolare quelle
della Sicilia. La Città, infatti, destina per questa spedizione ed offre
all'imperatore una nave appositamente costruita nell'arsenale del porto
di Palermo presso la chiesa di S. Maria della Catena. Ad essa vengono
poste le insegne cittadine e dato nome "S. Giacomo". La
nave scende in mare al comando del nobile caltagironese Antonio Gravina,
detto il bellicoso, quello stesso che l'anno precedente,
aveva fondato nel suo feudo l'abitato di S. Michele di Ganzaria, popolandolo
con una colonia di albanesi, cui egli destinava terre ed abitazioni.
Tali impulsi determinano anche aumento di popolazione. La Città avverte
per tempo i segni di questa crescita con le conseguenti necessità ed
affronta per primo il grande problema dell'approvvigionamento idrico.
Entro l'abitato cittadino trovavansi solo numerosi pozzi di acqua non
potabile perchè salmastra, sgorgando dal terreno argilloso del sottosuolo.
Occorreva dell'acqua potabile ed alla ricerca di questa rivolge tutte
le sue cure fin dall'anno 1522, progettando di fare arrivare ai piedi
dell'abitato cittadino, previe grandiose opere di condotti in galleria,
l'acqua dei Simini, località a mezzogiorno a circa tre chilometri dalle
mura cittadine.
I lavori audaci e costosi richiederanno nel corso di 85 anni l'intervento
di valorosi idraulici fra cui Giovanni di Nissi da Polizzi (1522), Francesco
Terranova e Francesco Siracusani da Noto (1544) e poi Giuseppe Lombardo
da Messina (1575) ed infine Domenico Bisazza pure da Messina (1593).
Fu solo nel 1607 che la Città potè inaugurare le complesse strutture
di piloni con fontane, abbeveratoi e lavatoi nel luogo denominato Acquanuova,
ponendovi una solenne iscrizione, fortunatamente conservatasi fino ai
nostri giorni, la quale così conclude:
CALATAGIRON
GRATIS TRANSFIXIS MONTIBUS ALTIS PREBUIT IN SICCO QUOD FLUAT UNDA LOCO
La
traduzione è questa: "Caltagirone fece sì che traforati alti monti,
l'acqua fluisse gratuitamente nel luogo secco".
Ma la Città voleva ancor piú magnificare l'arrivo di questa nuova acqua
che veniva a dissetare la cittadinanza. Infatti aveva pensato di fare
realizzare dall'ingegnere e architetto fiorentino Camillo Camilliani,
una fontana non meno grandiosa di quella di Piazza Pretoria in Palermo,
opera di Francesco Camilliani, padre di Camillo. Ma quest'opera per
i complessi impegni dell'artista, al pari della bara argentea del Sacramento,
della cui realizzazione egli si era pure impegnato, fu espletata solo
in parte e rimase perciò inutilizzata. Sul luogo invece furono eseguite
le strutture anzidette ad opere di Giandomenico Gagini.
Seguendo il filo cronologico dobbiamo ora dire del fasto cittadino nelle
feste religiose ed in particolare in quella del Protettore S. Giacomo,
che ha notevolissima incidenza su tutta la vita cittadina.
É da premettere che a dar inizio alla festa patronale di S. Giacomo
contribuì per primo il nostro concittadino, già elogiato come medico,
politico e prelato insigne, Mons. Giovanni Burgio, quando nel 1456 faceva
avere alla città la reliquia del Santo Protettore da Manfredonia, dove
era vescovo, prima che passasse a Mazara e poi a Palermo.
Con l'avvento del Rinascimento, l'Umanesimo permea tutta la vita cittadina
anche dal lato religioso. Alle vecchie feste raccolte in chiesa, dominate
dalla paura e dal rigore del Medioevo, subentrano quelle esterne briose
e allegre con processioni, illuminazioni, fuochi d'artificio, fiere
e mercati. É del 1518 la statua di S. Giacomo che commissiona
la Città al ben noto argentiere e statuario catanese,ma di origine napoletana,
Vincenzo Archifel, per condursi in processione nel dì festivo ed in
quello ottavario del Santo. É dello stesso anno l'ottenimento
della fiera per la festa patronale, concessa dal Viceré Ettore Pignatelli.
La Città fa sua la festa patronale per la connessione che ha il Santo
con la sua liberazione dal giogo saraceno, avvenuta il 25 luglio del
1090, giorno festivo dell'Apostolo Giacomo, a seguito di una segnalata
vittoria riportata nei pressi della città, dal Conte Ruggiero normanno,
nella contrada detta Saracena, dove ancora esiste la fontana
detta del Conte e la denominazione del luogo dell'accampamento normanno
detto Piano del Conte. Dal termine Rumì dato dai musulmani ai combattenti cristiani, è poi venuta fuori la denominazione Romana, data ai predetti luoghi occupati dalle milizie
normanne.
Attorno a questa festa si incentrarono nel tempo tutte le piú vive attenzioni
degli amministratori cittadini, perchè questi vedono in essa il modo
come esternare il fasto della città e nel tempo stesso il mezzo migliore
per potenziare la vita commerciale della popolazione, basata oltre che
sull'agricoltura, sulle industrie del miele, delle corde e della ceramica:
industrie peraltro favorite dagli immensi e vicini boschi demaniali
e dal privilegio di Alfonso d'Aragona, concesso alla città nel 1432,
per cui era possibile agli artigiani calatini comprare e vendere in
tutte le città demaniali dell'isola senza pagare dogana.
All'antica fiera di ottobre di S. Francesco, concessa ai caltagironesi
dai reali d'Aragona Martino e Maria nel 1392, che aveva luogo nel piano
di S. Giuliano, si aggiunge ora quella di S. Giacomo, che svolgendosi
in estate, costituiva un immenso richiamo commerciale per i cittadini
e i forestieri, anche perchè le fiere erano degli autentici empori,
dove era possibile trovare per la compra e per la vendita qualsiasi
cosa, dalle cibarie agli animali piú diversi, dagli utensili domestici
ai manufatti piú ricercati, dai tessuti piú comuni a quelli piú pregevoli,
dalla carta bianca ai libri a stampa piú costosi e rari.
L'attenzione dei paesi vicini e lontani era vivamente destata anche
per le particolari attrazioni, fra cui i fuochi pirotecnici per cui
la città divenne largamente rinomata nell'isola in occasioni di feste
civili e religiose.
La vita cittadina lascia il chiuso delle vecchie mura e si svolge ora
nella parte bassa e pianeggiante.
Fuori dalla cinta muraria sorgono nuove chiese, conventi, monasteri.
Il Palazzo di città è lì vicino in prossimità della pubbliche piazze,
dove, come già detto, annualmente si svolgeva la fiera di S. Francesco
e dove sorgevano i vicini rioni dei cordai e dai cannatari, ferventissimi
di attività: attività anche notturna per i forni dei ceramisti continuamente
accesi.
Questa larga zona pianeggiante occupata dai nuovi abitati, richiede
ora l'ampliamento della cerchia delle mura e la Città ben presto vi
pone mano. In mancanza di dette mura, in precedenza era stato consentito
ai cittadini di costruirsi ivi palazzi turriti e merlati a scopo di
difesa. I lavori per l'ampliamento della cinta muraria, già in corso
nel 1567, sono di grande mole per le accidentalità e i dislivello del
terreno e per gli ampi spazi che si vogliono recingere, non tutti coperti
di case.
La Città li affronta con tenacia rifacendo pure le vecchie mura del
lato settentrionale, ormai fatiscenti e pure gravemente danneggiate
dal disastroso terremoto del 1542, che aveva colpito duramente non pochi
antichi monumenti cittadini, fra cui la svettante torre campanaria della
Chiesa Madre, che in tale occasione perdette i merli al pari di quella
di S. Giorgio, e il campanile di S. Giuliano, che rimase dimezzato.
Dal vecchio castello, le mura scendono ora avanti la chiesa di S. Giacomo,
includono le chiese della Stella, dei Miracoli, di S. Stefano, di S.
Pietro, di S. Leonardo, di S. Giorgio, di S. Gregorio per ricongiungersi
al Castello, dopo un circuito di circa 2.000 passi.
Tre porte principali mettono in comunicazione la città con l'esterno:
la Porta di S. Giacomo ad occidente, la Porta di S. Eligio, detta anche
del Vento, a sud-ovest e la Porta di S. Pietro a mezzogiorno. Secondarie
rimanevano la Porta di S. Leonardo e del Fico a nord-est e la Postierla
ad oriente.
All'interno di esse trova riparo e difesa ora l'intero abitato che raccoglieva
oltre 11 mila anime. Recinta di nuove mura, la Città pensa a rendere
sempre piú fastoso il Palazzo dei Giurati che ora rimane al centro di
tutto il circuito delle mura e dell'intero abitato.
Nel 1568, Giandomenico Gagini, figlio del grande Antonello, è impegnato
a sostituire l'austero portale quattrocentesco con un altro piú fastoso
e ricco.
Sopra di esso fu apposta la seguente aulica iscrizione, da noi già riportata
in precedenza, che ricorda con vanto le ricchezze feudali per cui Caltagirone
era considerata la prima città dell'isola:
0
CIVES PATRIAE CONsulite
REBUS PUBLICIS PROSPIcite
NOSTRAE URBIS PATRIMONium summa
FIDE SERVANTES Augete boc
ENIM EST RELIQUARUM
SICILIAE PRIMA CALTAGIron.
Detta
iscrizione, negli anni 1572 e 1573, veniva recinta di festoni intagliati
pure di pietra bianca a guisa di ghirlande, dal maestro Antonuzzo Gagini,
figlio di Giandomenico. Questi, attesi i grandi lavori sul luogo, si
stabiliva in Caltagirone assieme ai suoi che vi rimarranno attivi fin
oltre la metà del 1600.
Ma il periodo piú fulgido della cultura caltagironese coincide con la
venuta dei Gesuiti.
Già la Città nel 1569, essendo Viceré di Sicilia Francesco Fernando
d'Avales de Aquino Marchese di Pescara, accoglieva l'idea suggerita
dallo stesso Viceré attraverso il suo inviato Don Antonino Romano Duca
di Cesarò, di fondare in Caltagirone un Collegio della Compagnia di
Gesù, per i vantaggi che si potevano ottenere sia in fatto di religione
come pure in materia d'istruzione.
Nel civico consiglio tenutosi il 18 settembre 1569 erano state scelte
come luogo per la Chiesa ed il Collegio le case del Magnifico Francesco
Gallenti e dei suoi parenti, poichè esse erano centrali e site nella
miglior parte della città e quindi idonee per la costruzione di una
grande chiesa e delle annesse scuole, ove dovevano essere introdotti
i figliuoli "alla vita cristiana et impararsi la sacra scrittura
et le lettere umane, di onde soleno nascere tante bone et fruttifere
opere alla salute dell'anima et ornamento della vita".
Il 27 gennaio 1570 fu tenuto il terzo consiglio civico con cui si concordò
il numero dei padri che dovevano venire in Caltagirone. L'atto di fondazione
del Collegio fu stipulato due giorni dopo, il 29 gennaio 1570, presso
il notaio Vincenzo Arcolaci.
Superate le difficoltà opposte dai proprietari per l'esproprio e l'abbattimento
di quelle case che ingombravano il sito concesso per la costruzione,
il Collegio e la Chiesa sorgono maestosi e diventano immantinente il
focolare domestico della cultura cittadina, la fucina dove si formano
le menti, dove si dispensa il sapere nel campo teologico, umanistico,
filosofico, storico ed artistico.
La Città di Caltagirone, affiancata al Collegio, trova in esso consigli
e programmazione; trova anche i custodi del bello e del sapere.
Qualsiasi iniziativa che riguardi la cultura e l'arte passa ora attraverso
il Collegio; ed è la Città stessa a volerlo, trovandosi confortata in
tutte le piú impegnative iniziative riguardanti l'amministrazione, la
scuola, le feste. La nobiltà calatina frequenta il Collegio ed al Collegio
manda i propri figli per apprendere e conoscere.
Il Collegio dei Gesuiti apre alla Città le vie verso i due centri isolani
piú ferventi e piú elevati per cultura: verso Palermo dove trovasi la
Casa Professa, e verso Messina dove sorge il Collegio piú aperto agli
influssi del Rinascimento italiano e ai contatti col mondo esterno e
lontano.
A Messina infatti era fiorita una rinomata scuola di umane lettere tramite
l'opera del Cardinale Bessarione che vi aveva mandato ad insegnare greco
Costantino Lascaris; ivi pure attecchiva e prosperava una scuola di
architettura gestita dai Gesuiti, affiancata da maestri di nome ivi
formatisi come Simone Gullì.
I Collegi siciliani, che si susseguono negli anni di fondazione trovano
progettisti in questi maestri, cui facevano corona anche artisti laici
come Giulio Lasso, Francesco Zaccarella, Giovanni Maffei, tutti provenienti
dal continente. Ma l'impegno di questa scuola di architetti messinesi
operanti nell'orbita gesuitica, non riguarda soltanto le costruzioni
dell'Ordine. Il gesuita Natale Masucci, assieme al Gullì e al Maffei,
è chiamato a progettare nel 1604 la nuova Chiesa Madre di Piazza Armerina
voluta per disposizioni testamentarie del Barone Marco Trigona e della
moglie.
Peccato che quel grandioso tempio, di cui era stato fatto anche il modello
in legno dal valente scultore di Militello G.B. Baldanza, non potè essere
realizzato per colpa dei fidecommissari e di qualche prelato del tempo
che antepose gli interessi privati al bene pubblico.
L'opera di questa scuola gesuitica rifulge a Trapani, a Sciacca, a Palermo,
a Caltagirone. Simone Gullì, messinese, è il progettista della chiesa
di S. Giuliano in Caltagirone, iniziata sulla fine del '500 su disegno
di un altro maestro della scuola gesuitica messinese, Francesco Zaccarella.
Nei documenti incontriamo come revisore dei lavori della chiesa del
Collegio calatino il fratello gesuita Giacomo Firini e poi conosciamo
il principale costruttore e l'intagliatore di tutte le decorazioni interne
in pietra bianca: Antonuzzo Gagini, coadiuvato da suo cognato Mariano
Montalto e dal nipote Girolamo Lamberto.
Quando il Di Marzo si chiedeva dove fosse a lavorare questo maestro,
perchè non lo incontrava nei documenti da lui consultati, era nella
chiesa del Gesù di Caltagirone. E lì infatti lavorò dal 1591 al 1593,
dandoci tutte quelle lesene coronate da ricchi capitelli tutti vari,
finemente intagliati in pietra bianca. Fu in quest'ultimo anno che la
chiesa fu inaugurata e per il cui ricordo fu apposta la seguente iscrizione
che ancora si legge sotto la lignea cantoria di sinistra:
TEMPLUM
HOC QUOD ANNO MDLXX SENATUS MUNIFICENTIA EREXIT ANNO MILLESIMO QUINCENTESIMO
NONAGESIMO TERTIO IESU NOMINI DICATUM EST.
Negli
anni successivi verrano tutte quelle altre decorazioni interne della
chiesa: il tetto a cassettoni, con rosoni dorati a fondo turchino, le
tele, gli altari, il pulpito, le cantorie intagliate, il palco dell'organo,
gli stucchi. E a eseguirli saranno maestri locali, messinesi e palermitani.
Contemporaneamente si gettano le basi per quella imponente biblioteca,
fatta quasi tutta a spese della Città. Con la soppressione dell'Ordine
nel 1767, essa andrà ad arricchire il patrimonio librario dell'Università
di Catania, per quanto la città si fosse opposta, dichiarandosi pronta
perfino a versare l'equivalente in denaro.
Tutte le principali somme spese dalla Città per l'abbellimento della
Chiesa e le dotazioni librarie del Collegio, risultano da un resoconto
presentato dal civico detentore dei libri contabili, su richiesta della
stessa Città nel 1778. Esse ammontavano nel 1603 a oltre 15.580 onze.
Ma diamo ora uno sguardo al folclore e alla vita culturale cittadina.
Ogni anno per la festa di S. Giacomo, in Caltagirone sì ha l'esplosione
del fasto cittadino a pubbliche spese. Nel 1589 si fa eseguire il nuovo
fercolo per la statua del Santo Patrono. L'incarico di realizzare l'opera
viene dato al napolitano Scipione di Guido, che dopo aver lavorato ad
Enna con tutta la sua maestranza di valenti pittori, indoratori, intagliatori,
fra cui Giuseppe Di Martino e Vincenzo Tammari, si ferma in Caltagirone
eseguendovi pure il tetto a cassettoni dorati per la Casa Senatoria
e il palco dell'organo per la chiesa di S. Giacomo, le cui pitture furono
stimate dal valente pittore di origine greca ma di stanza in Caltagirone,
Bernardino Nigro e dal figlio Paolo, scultore, autore del pregevolissimo
Cristo alla colonna della Chiesa Madre.
Sempre in questo periodo, la Città crea una cappella musicale e per
essa chiama valentissimi maestri, come Achille Falcone, cosentino, Pietro
Vinci da Nicosia, Silvestro Vanini, Pompeo Schillace.
Per la festa di S. Giacomo vengono chiamati pure a dare il loro contributo
d'arte rinomatissimi maestri di cappella di altri centri , come Antonio
Lo Verso da Piazza e Valente Spatafora. La musica è al servizio dell'arte
teatrale. Davanti alla chiesa del Collegio, nella vigilia della festa
patronale, si rappresentano tragedie aventi attinenza con la vita e
il martirio del Protettore. Conosciamo Pietro Pavone, valente poeta
catanese, che nel 1588 presenta la sua composizione "di un atto".
Nel 1592, la tragedia per la festa di S. Giacomo viene scritta dal P.
Francesco Palatino del Collegio. Nel 1598 Michele di Amedeo, poeta,
scrive lodi per le feste di S. Maria di Gesù e di S. Giacomo.
Alla Città vengono dedicate nel 1600 un centinaio di conclusioni filosofiche
dal padre della Compagnia di Gesú, Damiano Carnaccia, e date alle stampe
col contributo civico. Frà Gerardo Arcolaci dei frati minori, che ha
studiato a Roma nel Collegio di S. Bonaventura in Santi Apostoli, ove
si è addottorato, avendo dato alle stampe nel 1608 le sue letture di
teologia dedicate alla Città, riceve da questa 10 onze per completare
le spese da pagare agli stampatori. Lo stesso avviene nel 1633 con le
conclusioni di filosofia dedicate alla Città dal padre Vittorino Mannaro,
lettore del Collegio calatino.
La Città non manca di venire incontro ai cittadini anche dal lato sanitario
disponendo di valenti medici. Il chirurgo, Antonino Cubbo, nell'anno
1602, riceve dalla Città 24 onze per avere levato "una pietra
ad un povero".
Per fare rispettare i privilegi ottenuti dai monarchi nel corso dei
secoli, la Città si serve continuamente di illustri giuristi e cura
in pari tempo la conservazione degli atti dei notari defunti, destinandovi
competente personale e facendo costruire un monumentale archivio, affiancato
alla Corte Capitaniale, da Giandomenico Gagini junior.
Per l'apposito loculo della Casa Senatoria, destinato alla conservazione
delle pergamene, fa costruire dagli argentieri palermitani Agostino
e Giuseppe Sarzana nel 1584 la porta bronzea, simile a quella del reliquiere
della chiesa di S. Giacomo, opera degli stessi maestri.
La Città nel fasto cinquecentesco pensa pure all'erezione del Vescovado
che non ottenne perchè contrastato dalla Curia siracusana, specie quando
morì Bonaventura Secusio che ne era stato il principale sostenitore.
Non riuscendo in questo intento ripiega sulla creazione di un insigne
collegio di Canonici in S. Giuliano, che ottiene nel 1629 e subito dota
di una biblioteca ricca di incunaboli, come attesta l'insigne giurista
e storico caltagironese Pietro Paolo Morretta, continuatore dell'opera
su Caltagirone del gesuita Mario Pace.
Ma la Città fa sempre leva sui Gesuiti per i problemi culturali della
cittadinanza. Essa pensa di ottenere l'ampliamento degli studi del Collegio.
In esso hanno già pieno svolgimento le facoltà di filosofia, di teologia
e umane lettere. A queste si vogliono aggiungere ora le facoltà di medicina,
giurisprudenza e diritto canonico.
Emanuele Filiberto in veste di Vicerè concede nel 1622 questo privilegio.
Ma i continui contributi e donativi che la Città è costretta a pagare
non ne consentono un lungo funzionamento. Medici di spicco tennero cattedra
a Caltagirone. Vanno ricordati Gian Leonardo Boscarelli, Mario Trabucco,
Antonio Arcolaci, Giovan Giacomo Scalmato, Raffaele Barbadoro, rinomati
in tutta l'isola e fuori. Il Boscarelli fu il medico di Donna Giovanna
d'Austria, figlia di Giovanni d'Austria, il vincitore di Lepanto.
Nell'anno 1628 fu lettore di legge degli studi calatini l'illustre D.
Michele Nicosia, nel 1629 il Dr. D. Stefano Adamo, nel 1632 figurano
quali lettori di legge i dottori Francesco e Michele Schisano, Francesco
Perrella oltre il già menzionato D. Michele Nicosia. Alle facoltà di
teologia e filosofia si alimentarono i migliori prelati della città
e dei paesi vicini.
Ma anche prima della istituzione delle facoltà, il Collegio calatino
fu di stimolo a nobili e grandi ingegni che eccelsero per santità, per
cultura e per l'operare.
Cito P. Nicolò Longobardo, successore di Matteo Ricci nella missione
gesuitica cinese, primo dei siciliani a portarsi in Cina, che giovanissimo
dovè assistere nella sua patria alla costruzione del Collegio; P. Bonaventura
Secusio, generale dei Minori Osservanti e politico di eccezionale valore,
che lo vide eretto e ne trasse grandi impulsi; P. Innocenzo Marcinò,
generale dei Cappuccini, portatore di pace per l'Europa, che lo frequentò
nei suoi primi studi.
I nomi dei Gesuiti del Collegio di Caltagirone ebbero non poca risonanza
nei collegi dell'isola e fuori. Bartolomeo Petraci, Mario Paci, Gian
Carlo Chirandà, Francesco Aprile sono fra i piú noti localmente, il
primo per l'impegno mostrato nella realizzazione della cassa argenta
di S. Giacomo, e gli altri per aver dato alle stampe insigni opere di
storia riguardanti le città di Caltagirone e di Piazza Armerina. Si
posseggono atti di lauree in teologia conseguite nel nostro Collegio
nel sec. XVII. Era sempre presente alla laurea l'autorità cittadina,
giusto riconoscimento delle benemerenze per la fondazione del Collegio
e per il finanziamento degli studi. L'aula magna era la stessa chiesa
del Collegio.
Il secolo XVII vanta in Caltagirone la realizzazione di imponenti opere
architettoniche. La prima è la scala di S. Maria del Monte, aperta nel
1606.
Concepita con vedute moderne, opera arditissima per i tempi, richiese
lo sventramento di gran parte della vecchia città aggrappata al monte.
Essa fu aperta come strada larga e doveva congiungere la piazza dove
sorgeva il Palazzo Senatorio con la vecchia Chiesa Madre, che in pari
tempo veniva ampliata ed arricchita di pregevoli opere della locale
maestranza gaginesca che faceva capo a Giandomenico Gagini junior. Ma
per la sua ripidità, la larga strada tagliata e diretta dal predetto
Gagini fu sistemata a scala con l'intervento dell'architetto palermitano
Giuseppe Giacalone, appositamente mandato dal Vicerè.
Non meno ardita fu per i tempi la costruzione del ponte di S. Francesco
d'Assisi che sorgeva soprattutto come opera chiesastica. Fu costruito
per consentire agevolmente l'afflusso dei fedeli nella chiesa di S.
Francesco dove ogni anno si svolgeva, con grande concorso di popolo
e grande devozione, la festa della S. Croce. Il progetto esecutivo di
quest'opera fu fatto dall'architetto romano Orazio Torriani che era
impegnato a Piazza Armerina nella realizzazione della Chiesa Madre,
chiamatovi dal Vescovo di Catania Don Innocenzo Massimi, romano. Il
ponte, concepito con idee di grandiosità, è divenuto oggi parte importantissima
della principale arteria della città. La sua costruzione richiese lungo
tempo. L'opera, progettata nel 1627, dopo varie sospensioni per mancanza
di fondi, fu portata a termine nel 1665 sotto la direzione del valente
architetto dell'ordine- dei Conventuali Padre Bonaventura Certò, messinese.
Con la costruzione di questo ponte siamo a un secolo di distanza dall'ampliamento
delle mura cittadine. La città in questo periodo ha costruito chiese,
conventi, monasteri, romitori, ha realizzato insigni opere pubbliche,
ha fondato istituti di beneficenza e filantropia, creando ospedali,
case per orfane. Ha pure rammodernato e ampliato edifici sacri come
la Chiesa Madre e quella di S. Giuliano; ha arricchito di pittture,
ori e stucchi antichi templi come quello di S. Giorgio e di S. Giacomo
in particolare. Nel 1644, chi visitò quest'ultima chiesa scriveva: "Quando
la viddimo si stava ornando di pitture, di stucchi e d'oro in maniera
che quando sarà finita sarà una delle belle del Regno". Ad ornarla
di pitture era il rinomato pittore netino, Epifanio Rosso.
Ma tanto fasto e decoro di templi e di palazzi che ornavano la città
fu distrutto in pochi secondi dal terremoto dell'1 1 gennaio 1693.
Rovinò esso il regio Castello e gran parte delle mura della città; rovinò
il magnifico tempio della Chiesa Madre con la sua superba torre campanaria
di forma triangolare fabbricata trecento anni prima; fece crollare il
campanile di S. Giorgio ove una iscrizione ricordava la sua costruzione
avvenuta l'anno Mille; demolì quello di S. Giuliano, già dimezzato dal
terremoto del 1542, travolgendo tra le macerie l'originale orologio,
realizzato nel 1576 da Almirante Liuzzo da Tortorici, che segnava il
corso del sole e mostrava mensilmente i segni corrispondenti dello zodiaco;
rovinò l'antica e ricca Basilica di S. Giacomo, di recente arricchita
di insigni opere d'arte.
Di tanta storia, di tante opere cittadine accumulate nel corso di lunghi
secoli, rimaneva così solo il ricordo.
Ma il ricordo delle cose che furono non è qui solo lirica rimembranza
ma conoscenza di una gloriosa realtà scomparsa, su cui si basa il presente
ed il futuro della nostra convivenza sociale e culturale, che va degnamente
considerata e tramandata alla memoria dei posteri. |